
Filippo Dini
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Crediti:
FILIPPO DINI
Masterclass di RecitazioneQuando: 27 gennaio e dal 30 gennaio al 3 febbraio
Dove: Calata Trinità Maggiore n. 53, Napoli
Orari:
27 gennaio dalle 11.30 alle 16.30
30 gennaio, 1, 2 e 3 febbraio dalle 11,30 alle 17.30
31 gennaio dalle 10 alle 15Partecipanti: massimo n. 16
Costo €250
Candidature aperte dal 18 dicembre al 15 gennaioCOME CANDIDARSI
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masterclass@teatrobellini.it
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www.teatrobellini.itRitratto @Luigi De Palma
Scene di vita di campagna
Laboratorio di recitazione su
“Lo zio Vanja” di Anton Cechov
“Mai si deve mentire. L’arte ha questo di particolarmente grande: non tollera la menzogna. Si può mentire in amore, in politica, in medicina: si può ingannare la gente, persino Dio; ma nell’arte non si può mentire.”
(Da una lettera di Anton Cechov ad Aleksej Suvorin)
L’immortalità della drammaturgia di Cechov, ed in particolare di “Zio Vanja”, e la sua bruciante contemporaneità stanno proprio nella descrizione di un’”umanità alla fine”, una società sull’orlo del baratro, che avverte l’arrivo di un’apocalisse, che di lì a poco spazzerà via tutto il mondo per come lo avevano conosciuto fino a quel momento, di lì a 30 anni, infatti, ci sarà la Rivoluzione.
Così la nostra società europea, e forse ancor più quella italiana, vive, ci respira dentro ogni giorno, all’idea di una fine, qualcosa che determinerà un crollo, un collasso, una fine vera e propria, poiché lentamente sta sgretolandosi sotto di noi il concetto stesso di “Occidente”, almeno così come abbiamo imparato a percepirlo negli ultimi decenni (o negli ultimi secoli, pensandolo da un altro punto di vista).
I piccoli grandi personaggi di Cechov, che barcollano da un divano a un armadio e che si dibattono confusamente, o hanno smesso di dibattersi, come mosche in un barattolo, in che modo vivono la dimensione tragica della loro esistenza? Quanto sono consapevoli dell’assurdità della loro nascita e della loro morte? In che modo Cechov ci offre la chiave per rendere ricevibile il terrificante messaggio di un destino tragico.
Guarda alla vita, tende l’orecchio alla natura e vede.
Molto prima di Beckett, Cechov vede il ridicolo. E quello porta in scena.
Sono piccoli uomini, coraggiosi e spaventati, che lottano come lottava Antigone, come Amleto. Ma la loro titanica lotta contro il destino trova la catarsi non nella poesia vertiginosa della tragedia classica o nell’esplosione di vita del teatro Elisabettiano, trova la catarsi nelle 17 verste che Medvedenko ogni giorno si fa a piedi per vedere Mascia, negli inciampi di Epichodov, nell’ingrassare pigro di Andrej, nel farneticare di Firs, nella boccetta di profumo di Soliony, nelle mosche che tormentano Vanja e nel latrare dei cani che toglie il sonno a Sorin, in quelle maledette carrozze fuori scena che non sono mai pronte, o arrivano troppo presto o troppo tardi. E che nel pubblico suscitano pietà e divertimento per il congiurare delle stelle contro questi eroi così tanto umani, così fragili e forti che solo in brevi momenti, per lampi fugaci di consapevolezza involontaria, conoscono la speranza e l’amore.
È l’inciampo rovinoso nel gradino che separa ciò che siamo da ciò che abbiamo sempre desiderato essere.
Nella mia esperienza professionale, ho sempre trovato in Cechov, non soltanto un acutissimo osservatore delle dinamiche umane, e quindi spesso un consolatore, cinico e attento, nei momenti più difficili della mia vita, ma è stato molto spesso anche un maestro di teatro, in special modo per tutto quel che riguarda il mio personale rapporto con l’arte drammatica.
Avendo scelto, fin dalle mie prime esperienze, di porre l’arte dell’attore e l’attore stesso al centro di tutto il mio lavoro di ricerca, la poesia e la straordinaria capacità di analisi dell’essere umano, che Cechov ha condotto per tutta la sua vita in maniera davvero infaticabile (l’analisi di un medico, quindi di uno scienziato appunto), mi ha sempre molto ispirato ed ancor più stimolato alla studio e alla ricerca nella mia arte, partendo proprio, come lui, dall’analisi del mondo a me circostante.
Per questo trovo che la sua poetica e l’approfondimento delle dinamiche della sua drammaturgia, sia il migliore strumento per un attore, per attestare a sé stesso la salute della propria fantasia, della propria capacità di contemplare gli esseri umani come fonte di ispirazione e oggetto di analisi, e in ultimo, di ritrovare bellezza nello studio e nella inesauribile necessità di comprensione di noi stessi, in rapporto al gioco della finzione scenica.
Filippo Dini
Filippo Dini si è formato alla Scuola dello Stabile di Genova e all’inizio della sua carriera di attore è stato diretto da figure importanti del teatro italiano, tra cui Carlo Cecchi, Giorgio Barberio Corsetti e Valerio Binasco. Come interprete ha vinto un premio Hystrio-Anct , un premio Golden Graal, due premi Le Maschere del Teatro Italiano e nel 2022 il Premio della Critica. Al cinema ha lavorato con Nanni Moretti, PupiAvati, i fratelliTaviani, DonatoCarrisi, FrancescaComencini, i fratelli D’Innocenzo. La sua primar egia, “Duefratelli” di Fausto Paravidino, è del 2000. Nel 2015 ottiene il suo primo importante riconoscimento nazionale, il premio Le Maschere del Teatro Italiano per la messinscena dell’Ivanov di Čechov, rinnovato nel 2019 per Così è (se vi pare) di Pirandello, prodotto dal TST. Dini riesce a trovare nel suo lavoro l’equilibrio della propria ricerca creativa alternando grandi classici adadattamenti teatrali di opere letterarie o cinematografiche e nuovi testi di drammaturgia contemporanea. Dal 2021 è regista residente del Teatro Stabile di Torino. Nelle ultime stagioni è stato regista e interprete di Casa di bambola di Ibsen, The Spank di Hanif Kureishi, Ghiaccio di Bryony Lavery, Il crogiuolo di Arthur Miller e Agosto ad Osage County di Tracy Letts.
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