Il Nilo di Napoli

Il Nilo di Napoli

di Marco Izzolino

«Fanno così: misurano il livello del Nilo
da certe tacche graduate sulla piramide,
e se è alto, basso o medio, sanno
se seguirà abbondanza o carestia.
Più gonfia il Nilo, e più promette;
quand’esso si ritrae, il seminatore
sparge sul limo e sulla melma la semente,
e in breve tempo si ha il raccolto».
(Antonio a Cesare in W. Shakespeare, “Antonio e Cleopatra”, a. II, s. VII)


Molte cose sono state già scritte e dette nel corso dei secoli sulla scultura del Nilo presente a Napoli nel “Largo del Corpo di Napoli”, tuttavia vorrei qui proporre una mia personale rilettura del monumento sulla base di alcune evidenze che sono ancora presenti e visibili sul “corpo” del dio fluviale.
La scultura ci ricorda che durante il periodo romano della città, probabilmente dal I secolo a.C., una colonia di egiziani si insediò ai margini del nucleo centrale di Neapolis in un’area, denominata Regio Nilensis, che si presentava molto simile nella struttura a quella del delta del Nilo. Nel XIV secolo Bartolomeo Caracciolo nella Breve informacione tracta de diverse croniche che fay a vuy nostro signore lo vostro fidelissimo vassallo Bartholomeo Caraczolo dicto Carrafa cavaliere de Napoli ancora scrive: «El sexto segio si è quello de Nido lo quale stane ad presso la porta Ventosa socto la quale per la habundancia dell’acqua et delle padule corno è dicto de sopra paria che fosse lo Nilo lo quale è uno grande fyume de Egipto». Lungo l’attuale via Nilo si narra scorresse un torrente, chiamato Taglina, che raccoglieva tutte le acque della collina sovrastante e che si divideva in più rivoli, proprio a formare un piccolo delta, per poi terminare in mare dove si trova oggi la sede dell’Università su Corso Umberto I.
La scultura del Nilo, datata all’incirca al II secolo dopo Cristo, fu probabilmente commissionata da quella folta colonia di egiziani che popolavano la Napoli greco-romana – e che Svetonio ci narra si ingrandì di molto durante l’impero di Nerone, in particolare di mercanti provenienti da Alessandria – per celebrare la divinità fluviale della loro terra d’origine.
È arduo ricostruire la cronologia delle varie parti che costituiscono il monumento per il grado di consunzione complessivo dovuto al dilavamento provocato dagli agenti atmosferici e, recentemente, all’inquinamento ambientale. Le parti più antiche sono la figura del Nilo, ad eccezione della testa e del braccio destro, il corpo della sfinge ad esclusione della testa, quello del coccodrillo ad esclusione della coda ed i resti dei bambini che gli sono più vicini.
Si sa che la scultura subì un primo restauro nel 1657 (erroneamente indicato nel 1667 nella lapide posta sul basamento) e un successivo intervento di consolidamento del 1734 caldeggiato, tra gli altri, da Ferdinando Sanfelice. L’intervento seicentesco fu commissionato al poco noto scultore Bartolomeo Mori, attivo nella chiesa napoletana dei Santi Apostoli. Mori realizzò ex novo la testa e il braccio destro della figura ispirandosi probabilmente alla allora molto celebre scultura del Nilo di epoca adrianea conservata oggi ai Musei Vaticani. Ulteriori restauri furono apportati dallo scultore Angelo Viva tra la fine del XVIII secolo e i primi anni del XIX secolo alle parti integrate da Mori.

La scultura ai Vaticani è circondata da 16 putti che, nei confronti della figura del dio, appaiono molto piccoli rispetto alle corrette proporzioni umane. Nel VII libro della Naturalis Historia Plinio il vecchio afferma trattarsi di una replica romana di un originale scultoreo alessandrino, realizzato in basalto nero, e collocato da Vespasiano nel Tempio della Pace a Roma, i cui i putti avrebbero rappresentato i 16 cubiti di crescita ideale delle acque del Nilo durante la stagione delle inondazioni.
Anche la scultura napoletana era circondata di putti; da Bartolomeo Caracciolo (già citato) sappiamo che nel Trecento vi erano «cinco infantini (…): tre ne stanno da parte dericta et duy de la sinistra» e dalla Historia generale del Reame di Napoli di Placido Troyli (1752) sappiamo che il Nilo era circondato da «molti fantolini, che li scherzano attorno»; oggi ne sono chiaramente visibili solo due sopra la sfinge; due presenti in passato nella parte frontale sappiamo che furono trafugati insieme alla testa della sfinge alla fine degli anni cinquanta; la base di un altro fanciulllo e chiaramente visibile vicino al corpo del coccodrillo. Date le vicissitudini che ha subito il monumento sarebbe difficile oggi stabilire da quanti putti fosse circondato il dio in origine. Vorrei tuttavia soffermarmi su queste figure poiché la loro interpretazione è molto importante per comprendere appieno la complessità del monumento.
Le figurette di fanciulli che si trovano, a partire dall’età ellenistica e per tutto il periodo romano (presenti anche in molte medaglie e monete), attorno al Nilo nelle rappresentazioni figurate erano chiamate pécheis (cubiti in latino, gomiti in italiano). Si possono citare come riferimenti bibliografici il Rhetorum praecepto di Luciano di Samosata, e le Eikones di Filostrato il vecchio, il quale – detto per inciso – descriveva le immagini dipinte in una ipotetica villa nei pressi di Napoli. I pécheis personificherebbero dunque il livello ideale (sedici in età greco-romana), misurato in cubiti (circa 50 cm), cui il Nilo doveva salire nelle periodiche inondazioni. Non si conosce l’origine di tale rappresentazione, che non appare in età faraonica; tra le ipotesi (Anna Maria Roveri) c’è la derivazione dal vocabolo col quale si indicava il neonato in egiziano: s-n-mḥ = individuo di un cubito. Secondo Bernard Matthieu, invece, un suggerimento di ordine più propriamente figurativo potrebbe essere venuto dalle scene di caccia e pesca sul Nilo, frequentissime nell’arte egiziana, in cui servi cacciatori e pescatori erano raffigurati in proporzioni minori rispetto ai padroni, fino a perdere ogni rapporto coi pesci, gli uccelli e le piante. Una scultura in marmo del Museo Greco-romano di Alessandria rappresenta una divinità maschile seduta – probabilmente il Nilo – con a lato le figure di due fanciulli piccolissimi intenti a scalare, uno sulle spalle dell’altro, una roccia. In questa vi è un’iscrizione che allude ai πήχεις.
Va chiarito che né Luciano («Se mai vedesti il Nilo come molti lo dipingono seduto sovra un coccodrillo o un ippopotamo, e certi puttini»), né Filostrato («Intorno al Nilo, giuocano i Cùbiti [Πήχεις], fanciulli di statura uguale al loro nome. Il Nilo li ama: tra l’altro, anche perché annunciano agli Egiziani la quantità delle sue tracimazioni») citano il numero dei fanciulli attorno alla personificazione del fiume; in molte monete tolemaiche e romane essi appaiono anche solo nel numero di due o tre, probabilmente a sintetizzare una consuetudine iconografica. È possibile quindi che il Nilo napoletano potesse anche non essere circondato da 16 putti, come l’esemplare romano citato anche da Plinio, ma da un numero inferiore di figure. Inoltre, nella scultura di Napoli i fanciulli hanno una dimensione più realistica in rapporto al corpo adulto della divinità fluviale, rispetto all’equivalente monumento vaticano.
Angelo Di Costanzo, nobile napoletano che fu storico e poeta con lo pseudonimo di Marco Antonio Terminio, riporta nella Apologia di tre Seggi illustri di Napoli (1581) che la statua, dopo il crollo dell’Impero Romano cadde nell’oblio, fino a quando non fu ritrovata acefala verso la metà del XII secolo, quando l’edificio del seggio fu costruito nell’area dell’attuale largo, e venne collocata all’angolo esterno dell’edificio. La mancanza della testa e la presenza dei due putti all’altezza del petto, interpretati come neonati intenti ad essere allattati, fece interpretare dal popolo napoletano la scultura come una immagine femminile, simboleggiante la città che allatta i propri figli. Sempre nella Breve informacione del Caracciolo leggiamo: «Alo quale luoco de Nido se dice che vi fosse una ymagine de marmore co una dompna yscolpita che nutrica cinco infantini suoy figlyoli», mentre nel 1553, un secolo prima del restauro, Benedetto di Falco scrive nella sua Descrittione dei luoghi antiqui di Napoli e del suo amenissimo distretto: «La terza strada è quella del Nido, dovendosi dire del Nilo detta dalla statua di marmo con una imagine d’una gran donna con molte poppe che lattaia molti fanciulli, nuovamente ritrovata nel Seggio, cauandosi la terra per ammattonar la strada». Interpretata dunque come una donna il monumento venne volgarmente chiamato “o cuorp’e Napule” (il corpo di Napoli). Già nel Trecento e fino al primo restauro erano dunque presenti i putti attorno alla scultura e già allora erano posti in una posizione che appariva come una scena di allattamento.

C’è tuttavia un altro particolare nella scultura napoletana che desta molta curiosità e cioè il fatto che la figura maschile abbia un ventre pronunciato, la qual cosa non è presente nella scultura ai musei Vaticani, né in altre raffigurazioni simili di divinità fluviali. Questo dettaglio, apparentemente di poco conto, ha secondo me un valore iconografico che fino ad ora è stato sottovalutato.
Quel ventre generoso ricorda l’iconografia di Hāpi, l’incarnazione della fecondità dell’inondazione del fiume Nilo. Gli antichi egizi non avevano un dio che personificasse il fiume stesso, veneravano piuttosto un nume tutelare dal quale dipendesse la fecondità della terra con l’acqua. Già da epoche molto arcaiche gli Egizi sapevano che la loro sopravvivenza era legata alle piene del Nilo per cui questo fenomeno fu in un certo senso divinizzato molto precocemente già dall’Antico Regno. Nella loro lingua, il Nilo è chiamato Iteru-aa, che significa letteralmente grande fiume; esso svolgeva un ruolo così significativo nella vita politica, sociale e spirituale che gli Egizi crearono questo nume dedito al controllo delle inondazioni annuali. Tale divinità fu dunque chiamata Hāpi (H῾pr, o H῾pj), nome col quale si designava spesso il fiume stesso, e sia lui che il faraone erano ritenuti i controllori delle inondazioni del fiume.
Questa divinità fluviale veniva raffigurata sempre con addome pronunciato (simbolo di abbondanza), con la barba e mammelle pendule in segno di fertilità, e per questi aspetti spesso veniva visto come una divinità androgina ed ermafrodita. Si trattava dunque di una divinità maschile che nelle processioni si alternava a figure femminili ed era opulenta perché simboleggiava la prosperità. Era una divinità creatasi da sola e che donava a piene mani l’abbondanza e con essa anche la gioia e l’allegria. Il ventre della scultura del Nilo di Napoli ricorda proprio la forma del ventre di Hāpi così come appare nelle antiche raffigurazioni egiziane.
È possibile – ma questo rimane solo nel caso delle ipotesi in mancanza di parti originali – che la scultura napoletana rappresentasse una versione grecizzata non tanto del fiume Nilo, quanto del suo spirito, della sua essenza dinamica, quel nume tutelare Hāpi: un perfetto connubio tra la figura originaria della divinità fluviale egiziana, di natura ermafrodita, con la statuaria greco-romana più incline a rappresentare la fertilità come una caratteristica tipicamente maschile.
La scultura del Nilo napoletana, dunque, per quanto molto vicina alla rappresentazioni fluviali del mondo magnogreco e poi romano, poteva contenere dettagli in grado di rappresentare il connubio tra l’acqua che è uomo e la terra fertile che è donna e che unitamente gli davano l’attributo “di padre e di madre” come recita il Papiro di Berlino: «L’immagine di Hāpi che per metà è uomo e per l’altra metà è donna».

Vorrei ora ritornare al possibile significato dei putti che circondavano la figura del Nilo. Ho scoperto una interessante ipotesi su queste figure di fanciulli avanzata da Melchiorre Cesarotti, scrittore, poeta e linguista di primo Ottocento, a nota dei propri commenti critici ai versi dell’Iliade nella traduzione di Vincenzo Monti, per la prestigiosa edizione veneziana del 1836 facente parte della collana Parnaso Straniero, edita da Giuseppe Antonelli. La nota all’inizio del Libro Terzo del testo di Omero (nella traduzione di Monti):

Poiché sotto i lor duci ambo schierati
gli eserciti si fur, mosse il troiano
come stormo d’augei, forte gridando
e schiamazzando, col romor che mena
lo squadron delle gru, quando del verno
fuggendo i nembi l’oceàn sorvola
con acuti clangori, e guerra e morte
porta al popol pigmeo.

fa riferimento all’antico mito della lotta dei pigmei con le gru. Si tratta del mito della Geranomachia raccontato per la prima volta in questi versi da Omero, poi da Ecateo da Mileto nel primo libro delle Genealogie, da Aristotele nell’ottavo libro della Historia Animalis, da Giovenale nella terza Satira e da Oppiano nel primo libro della Halieutica; nelle arti figurative è rappresentato già verso il 570 a.C. sul piede del cratere François (Firenze, Museo Archeologico), su altri vasi a figure nere della metà circa del VI sec. a.C. ed inoltre se ne conoscono molte versioni su mosaici romani. Nella nota Cesarotti fa l’interessante ipotesi che l’iconografia greco-romana del fiume Nilo circondato di fanciulli indicanti i cubiti di crescita del fiume abbia un origine comune a quella del mito della Geranomachia, determinata da una interpretazione greca del linguaggio allegorico egizio:

«Ora a questa locuzione allegorica degli Egizii noi dobbiamo la favola de’ Pigmei. Conciosiachè usando i sacerdoti dì Egitto di mentovar nei loro libri i fanciulli cubitali, che in greco si direbbero pechiei o pigmei, e d’usar anche coi forestieri lo stesso linguaggio simbolico, e collocando i detti fanciulli alle fonti del Nilo, i Greci prendendo questa locuzione in senso letterale ed istorico, immaginarono esservi nell’Etiopia un intero popolo non mai veduto da alcuno d’uomini dell’altezza d’un cubito, detti da questo Pigmei (…). È facile scorgere che nel linguaggio allegorico degli Egizii, da cui questa tradizione ebbe origine, il combattimento de’ Pigmei colle gru non dinotava altra cosa che il decrescimento del Nilo nel tempo in cui questi uccelli abbandonano i climi del Nord per passare al mezzo giorno, cioè a dire il mese di Novembre, sull’avvicinar dell’inverno. (…)
(Le gru fanno la guerra a! Pigmei, e questi cedono dopo una vana resistenza, è una frase allegorica corrispondente a quest’altra : all’apparir delle gru, i cubiti del Nilo vanno decrescendo e a poco a poco spariscono)».

Del resto si conoscono molte versioni, conservate in musei di tutto il mondo, delle cosiddette “Lastre Campana” – rilievi di terracotta, anticamente dipinti, utilizzati come rivestimenti per la decorazione di edifici pubblici e privati, a partire dal secondo quarto del I secolo a.C. fino al II d.C. – che rappresentano scene nilotiche; sullo sfondo di molte di esse appare rappresentata l’area della sorgente del Nilo: si riconoscono capanne di paglia spesso circondate di gru, a volte si vede la figura sdraiata del Nilo con un putto al suo fianco, ed altre volte piccoli uomini accanto alle gru o vicino alle capanne, che non sono affatto dissimili dai putti.
Avanzo a questo punto un ipotesi. Sappiamo da studi di egittologi che sovente nelle processioni egiziane Hāpi era accompagnato da una moltitudine di geni, figure ermafrodite rappresentanti i vari nomo (i distretti in cui era suddiviso il territorio degli Egizi) e personificazione degli spiriti delle acque, tutti recanti prodotti locali, che era aperta dal sovrano, per recare al fiume le sacre offerte. Da queste raffigurazioni che accompagnavano Hāpi, che avevano dimensioni inferiori rispetto a quelle del nume tutelare delle piene, avrebbero potuto prendere origine in periodo alessandrino due tradizioni iconografiche: quella delle personificazioni dei cubiti di crescita del fiume come fanciulli e quella degli uomini di piccole dimensioni che popolavano la mitica foce del Nilo dove si trovava la grotta in cui risiedeva Hāpi. Entrambe avrebbero avuto come comune denominatore l’idea di rappresentare l’origine del sacro fiume da cui scaturivano le piene. Le processioni per l’arrivo della piena non si sono mai interrotte né alla fine del periodo faraonico, né nel periodo romano. Si conoscono infatti due raffigurazioni pavimentali a mosaico romane di processioni nelle quali il dio Nilo viene condotto in festa: una è a Leptis Magna ed è datata II secolo d.C., nella cosiddetta Villa del Nilo, dove la figura del dio in sella ad un ippopotamo è trainata con un festone da quattordici figure di fanciulli ed è preceduta da due figure di donne suonatrici; l’altra è a Sefforis in Galilea, nella cosiddetta Casa della festa del Nilo, datata V secolo d.C., dove il dio appare ancora in sella ad un ippopotamo preceduto da cinque putti, di cui due stanno incidendo su un nilometro (la colonna che misurava le piene) il numero 17 [cubiti].
Il mosaico della Casa della festa del Nilo di Sefforis, appare molto interessante per il discorso che si sta conducendo sull’immagine del Nilo anche per la presenza di altre figure significative. Le immagini del mosaico sono disposte su tre livelli sovrastanti attraversati in diagonale – dalla destra in alto verso la sinistra in basso – da un rivolo d’acqua che fuoriesce dal vaso che si trova sotto il braccio della figura del dio Nilo. Nel registro inferiore vi è una sorta di celebrazione della floridezza del contesto naturale del fiume: l’acqua consente la crescita delle piante, che attirano gli animali erbivori e che a loro volta divengono cibo per le fiere carnivore. Nel registro intermedio due cacciatori a cavallo si dirigono verso la città di Alessandria ad annunciare la buona novella dell’arrivo della piena del Nilo: la città è rappresentata dalla porta turrita – al di sopra della quale appare il nome della città – dal famoso faro affianco alla torre di destra e dalla Colonna di Pompeo. Nel registro superiore il dio Nilo appare nell’estremità destra; al centro della scena vi è il nilometro, rappresentato come una colonna su cui uno dei 5 putti sopra descritti, poggiandosi sulle spalle di un altro incide il numero 17; tale colonna divide la scena in due metà perfettamente simmetriche, alla cui estremità sinistra vi è un’altra figura distesa che fa da pendant a quella del dio Nilo: l’iscrizione in greco sopra di essa AIGY[PYOS] indica si tratti della personificazione dell’Egitto. Questa figura è stata sempre genericamente interpretata come una figura femminile, perché presenta un prospero seno; tuttavia essa mostra caratteristiche del volto decisamente androgine: sopracciglia molto folte ed una ombreggiatura della zona mandibolare, che fa pensare ad una barba puberale. Purtroppo questa figura è pesantemente danneggiata all’altezza del ventre e del bacino, dunque non si riescono ad avere altri indizi, tuttavia la mia ipotesi è che si tratti di un ermafrodito, cioè di una personificazione di una terra che, come l’immagine dell’antico nume Hāpi, contiene in sé l’immagine dell’acqua che è uomo e della terra fertile che è donna e che unitamente gli danno l’attributo di padre e madre terra.
Mi piace pensare che sia esistito un modello iconografico – magari proprio ad Alessandria – a cui si è ispirato il mosaicista di Sefforis nel comporre la personificazione dell’Egitto, che conteneva degli attributi per così dire “arcaici”, cioè associabili alla antica immagine di Hāpi, e che è stato all’origine delle prime raffigurazioni del dio Nilo. Una immagine che non era più quella di Hāpi, ma non era ancora quella del dio Nilo, e che tuttavia era in grado di condensare segni significanti di un territorio, che tutti coloro che, nati sulle sponde del Nilo e stabilitisi in altri luoghi del mediterraneo, avrebbero potuto riconoscere come simboli di appartenenza. Un modello iconografico, ad esempio, cui potrebbe essere derivata la statua di Napoli. Non va dimenticato infatti che il Nilo partenopeo non era un opera di spoglio di monumenti egiziani, né un’acquisto di ricchi patrizi romani per assecondare la moda “nilotica del tempo, ma una statua che fu commissionato da e per gli Alessandrini di Neapolis, la cui maggiore esigenza era probabilmente quella di ricordare il proprio luogo d’origine. Si badi, non voglio con questo affermare che la scultura napoletana non rappresenti il Nilo, ma ritengo tuttavia che si tratti di una figura di ermafrodito e che realmente allattava alcuni dei putti di cui era circondata. Semmai un giorno si ritrovasse la sua testa originaria, non mi sorprenderebbe se raffigurasse quella di un giovane androgino piuttosto che di un vecchio barbuto. Considero il Nilo partenopeo una sorta di “anello mancante”: una scultura – probabilmente la copia di fine I secolo d.C o inizio II – che ci mostra l’esistenza di un modello iconografico ibrido che ha mascherato dietro l’aspetto e la struttura del linguaggio figurativo greco dei significati che sono rimasti quiescienti per tutto il periodo romano e poi bizantino.

Brian Campbell in Rivers and the Power of Ancient Rome (University of North Carolina press, Chapel Hill 2012) afferma che: «la rappresentazione del Nilo fu direttamente creata dai Greci e non corrispose in alcun modo significativo con la religione del periodo faraonico. I Romani rilevarono questa tradizione, sebbene vi siano numerose variazioni» (p. 153). Napoli fu un luogo perfetto affinché questa forma di rappresentazione greca di contenuti egiziani, potesse diffondersi e poi evolvere attraverso la cultura romana e poi bizantina. Il gruppo di Alessandrini di Neapolis, estremamente variegato per ceto, cultura e fascia d’età si integrò e si armonizzo con il tessuto sociale della città greco-romana e ben fu accettato dai napoletani. Questi “Nilesi”, portarono certamente dall’Egitto tradizioni ermetiche e religiose da antichi tramandi iniziatici, come l’ancestrale ritualità dedicata ad Iside ed a Osiride. Culti praticati ma custoditi da ristrette caste sacerdotali che officiavano per i soli adepti. Alessandria rappresentava con la sua immensa storia uno dei fulcri di queste tradizioni misteriche. In queste cerchie ristrette si custodiva la primigenia forma di alchimia che aveva visto la sua genesi nell’antico Egitto. Secondo alcuni studiosi, nella Neapolis si verificò una vera e propria fusione tra il sapere greco ed i misteri egizi, tra la tradizione Pitagorica magnogreca e quella Egizio-Alessandrina e si custodì nel tempo. La scultura del Nilo costituisce la perfetta immagine di questo connubio di culture.
In un passo del Timeo Platone (22 a-b) narra di un viaggio di Solone in Egitto. Nel dialogo uno dei personaggi rievoca la permanenza del saggio ateniese a Sais, un distretto egizio nel Delta del Nilo, durante la quale ebbe modo di ascoltare le testimonianze dei sacerdoti del luogo. Solone, discorrendo con uno di questi anziani religiosi, si potè rendere conto di non essere egli stesso, né alcun greco, informato di fatti antichi tanto quanto gli Egizi (Timeo 22 a). Uno dei sacerdoti, rivolgendosi a Solone, gli dice – curiosamente – che tutti i Greci sono come bambini, giovani nell’anima, privi di opinioni antiche che provengono da una primitiva tradizione (Timeo 22 b). Il racconto poi prosegue ricordando l’importanza del Nilo per la terra circostante e facendo menzione di fatti precedenti a quelli che i Greci considerano i più antichi in assoluto. Il sacerdote mostra infatti di essere a conoscenza di altri diluvi anteriori all’unico noto ai Greci. L’ammirazione con la quale Solone ascolta il suo interlocutore appare come il segno dell’atteggiamento dei Greci nei confronti degli Egizi, depositari di un sapere remotissimo.
Ancora Platone nel Fedro (274 c-d) racconta di quando il dio Theuth, che viveva presso Naucrati, città del Delta del Nilo si recò un giorno dal faraone di Tebe egizia per mostrargli le sue invenzioni: i numeri, il calcolo, la geometria, l’astronomia, il giochi degli scacchi e dei dadi ed anche la scrittura. Platone dunque attribuisce a Theuth, divinità identificata con l’Ermes dei Greci, il primato in molte arti e conoscenze utili agli uomini.
Mi piace pensare che la scultura del Nilo di Napoli possa nascondere anche un’altro tipo di significato più profondo, quella di una cultura (un dio) che proviene dall’Egitto e che simbolicamente nutre (allatta) i greci bambini con i “veri doni del Nilo”: i segreti di un’antica conoscenza.

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