di Alessia Crispo
Storia del teatro e dello spettacolo
Prof.ssa Aurora Egidio
Università degli Studi di Salerno

Entrando nella sala grande del Bellini, deliziosa cornice ottocentesca, illuminata dal dorato degli stucchi barocchi e da calde luci soffuse, lo spettatore viene accolto come di consueto da una sensazione di comfort e intimità. Nulla ora potrebbe essere più in contrasto con la scenografia già visibile in scena: una stanza squallida, spoglia, con la carta da parati residua parzialmente staccata dalle pareti. Lo scarso mobilio che c’è, è misero, al limite dell’insufficiente. L’unica fonte luminosa è una luce d’emergenza che bagna tutto di un bianco freddo. La sensazione è di incuria, abbandono, tristezza. 

Lo spettacolo si apre con un suono ipnotico, il ritmico respiro di Hamm (Michele Di Mauro), reso metallico dalla maschera per l’ossigeno. La sua quasi totale immobilità è bilanciata dai movimenti legnosi e nervosi di Clov, suo figlio e servo (Giuseppe Sartori). Tutto contribuisce alla creazione di un ambiente sterile, post-apocalittico. Una sorta di manifesto che comunica in maniera chiara allo spettatore che quello a cui sta per assistere non è rassicurante, né ordinario. 

Nello stesso ambiente, in una vasca da bagno, all’occasione nascosta da una tenda, giacciono padre (Alessio Piazza) e madre (Anna Rita Vitolo) di Hamm. La scelta di una vasca da bagno al posto degli iconici dustbin, così come quella di un alloggio concreto, invece della storica scenografia minimalista, ci allontana volutamente dalla dimensione dell’assurdo per avvicinarci a quella della verosimiglianza. I dialoghi stessi mancano solo in apparenza di un filo narrativo: raccontano una famiglia che è rifugio ma anche, e soprattutto, prigione. I legami di co-dipendenza (servo/padrone, figlio/genitori) nascondono lati tossici al limite dell’ossessione.

L’allestimento nasce da un lavoro di ricerca collettiva e questo approccio creativo si riflette nelle interpretazioni: gli attori giocano con i volumi vocali e con la modulazione emotiva, delle volte in maniera così repentina da spiazzare lo spettatore, mettendo ogni strumento al servizio della costruzione di tensioni o di momenti d’introspezione.

L’unico istante in cui l’atmosfera claustrofobica si allenta è quando Hamm chiede di essere portato sotto la finestra, per sentire il sole sulla pelle. Le fredde luci artificiali della stanza vengono spente e gli scuri di una finestra sono aperti, mentre tutte le voci tacciono. Un fascio di luce dorata si disegna nell’ambiente, relegando alla penombra lo stato di abbandono. Quell’attimo di bellezza rimane impresso, poiché ci concede di respirare: è una breve tregua prima del round finale.

Lo spettacolo evoca esattamente ciò che la regia e gli attori hanno voluto comunicare: qualcosa di scomodo, viscerale e autentico. E il testo, a quasi settanta anni dal suo debutto, ferisce per l’attualità e l’universalità delle tematiche affrontate, affermandosi come un gesto collettivo, quasi esorcizzante: mette il pubblico di fronte a paure, tensioni e fragilità condivise, costringendolo ad affrontarle, seppur indirettamente.

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