di Elisabeth Galvan
Professoressa ordinaria di Letteratura tedesca, Università di Napoli L’Orientale
The Belliner n.28
Se è vero che la letteratura rende visibili aspetti e livelli di vita altrimenti nascosti, essa, procedendo in questo modo, si assimila a un dispositivo ottico la cui funzione risiede per l’appunto nel rendere percepibili fenomeni preclusi all’occhio nudo. La scrittura letteraria varca anche sempre delle soglie: tra mondo reale e mondo della finzione, tra sogno e veglia, tra conscio e inconscio, tra mondi e generi diversi.
Con la sua novella La morte a Venezia, scritta nel 1911 e pubblicata l’anno successivo, Thomas Mann “mette in scena” – poiché si tratta propriamente di una tragedia raccontata in cinque atti-capitoli – l’emergere del lato sommerso del protagonista Gustav von Aschenbach in un continuo varcare di soglie che si declina nella fusione di codici visivi, poetici e musicali. Ed è questa dimensione multimediale ante litteram della novella che il percorso scenico ideato da Liv Ferracchiati restituisce al pubblico di oggi, fondendo parola, danza e video in un unico linguaggio artistico che racconta l’incontro tra Aschenbach e Tadzio. Come nella novella, anche qui la cifra centrale è lo sguardo che si manifesta materialmente come videocamera manovrata a mano da Aschenbach-Ferracchiati. Lontanissima dal mettere l’accento sull’aspetto omoerotico della costellazione Aschenbach-Tadzio come ha fatto Visconti nella sua celebre trasposizione cinematografica della novella (che coglieva comunque magistralmente la centralità dello sguardo), la rivisitazione da parte di Liv Ferracchiati si disinteressa (a ragione, verrebbe da dire) anche di un altro elemento sempre ritenuto rilevante: la differenza di età tra lo scrittore maturo negli anni e il giovanissimo Tadzio. Il percorso scenico sottopone il testo manniano a un processo di enucleazione di alcuni dei suoi elementi essenziali che si collocano su un piano diverso, più profondo, rispetto alla mera storia della passione di uno scrittore famoso per un giovane che conduce alla morte. Il sipario della novella di Thomas Mann si apre sulla crisi creativa del protagonista Gustav von Aschenbach che lo porta a lasciare Monaco, città in cui risiede, per intraprendere un viaggio. L’artista giunge così a Venezia, luogo in cui, secondo quanto aveva scritto Gabriele d’Annunzio nel suo romanzo Il fuoco, sottotesto segreto de La morte a Venezia, “come non si può sentire se non per modi musicali così non si può pensare se non per immagini”. Con queste parole d’Annunzio non aveva solo descritto il potenziamento artistico-creativo prodotto dalla città lagunare, ma anche la capacità di Venezia di ispirare la fusione di linguaggi artistici diversi: un programma estetico che coincide con l’attività cui Aschenbach attende non appena giunto al Lido. In questo modo lo stallo creativo dello scrittore monacense è dunque superato? Riprende a scrivere? Apparentemente no, poiché la sua occupazione principale ora è un’altra: quella di guardare, osservare, contemplare, e l’oggetto del suo sguardo è sempre e solo uno, Tadzio. E mentre lo inquadra, ciò che lo sguardo vede si traduce in parola: “Con stupore Aschenbach notò che il ragazzo era di una bellezza perfetta. Possedeva un fascino talmente unico che colui che guardava credeva di non aver mai incontrato nulla di così perfetto.” Tadzio viene narrato esclusivamente dalla prospettiva di Aschenbach, è il suo sguardo a fissarlo come un’immagine mentre entra nella sala da pranzo dell’albergo, esce dall’ascensore, gioca in spiaggia, nuota nel mare, prega nella cattedrale, percorre le calli di Venezia. Il narratore non sembra sapere nulla di Tadzio, è solo Aschenbach a vederlo e a raccontarlo, e ogni incontro ci viene restituito come un’ekphrasis, una descrizione verbale di un’opera d’arte visiva, qui declinata nell’apollinea corporeità di una statua greca.
Ma Tadzio non è solo corpo apollineo. Porta in sé anche l’elemento dionisiaco, poiché la lingua che parla, incomprensibile per Aschenbach, giunge all’orecchio di quest’ultimo “come una sfumata melodia”. Per Nietzsche la tragedia classica nasce dalla fusione di un duplice impulso artistico, quello apollineo, legato all’arte plastica e alla parola, e quello dionisiaco legato alla musica. In Tadzio entrambi i principi si fondono finendo per conferirgli il carattere di un’opera d’arte il cui creatore altri non è che Aschenbach. In un continuo gioco di specchi Tadzio ispira all’autore Aschenbach quell’ultima sua creazione poetica di cui è protagonista.
Alla fine della novella, quando tutti gli ospiti del Lido sono ormai partiti per sfuggire all’epidemia di colera e la spiaggia si presenta deserta, viene menzionato per la prima volta un oggetto in riva al mare, una macchina fotografica su un treppiede, “apparentemente senza proprietario”. L’assenza del fotografo è quindi solo apparente? E chi l’avrebbe manovrata fino ad allora? In spiaggia, in quel momento, si trova solo Aschenbach, seduto su una sedia a sdraio a osservare un’ultima volta Tadzio. È giunto ormai alla fine del suo vedere, contemplare e inquadrare l’oggetto della sua passione che aveva restituito, in un linguaggio altamente poetico, come una sequenza di fotografie. Il percorso scenico ideato da Liv Ferracchiati coglie con grande intuizione questo aspetto, potenziandolo attraverso una videocamera che proietta e ingrandisce le immagini di Tadzio interpretato dalla danzatrice Alice Raffaelli. La scelta di leggere la sua figura attraverso il linguaggio della danza sottolinea la sua dimensione corporea. Ma in un rapporto fatto di soli sguardi anche il corpo si rivela infine un’illusione, pura virtualità. Quando poco dopo la pubblicazione de La morte a Venezia una lettrice scrive a Thomas Mann per chiedere del destino di Tadzio, l’autor risponde: “Tadzio non muore. Non è nulla in sé, è tutto solo agli occhi e nello spirito di colui che muore. È infatti quasi solo un fantasma.”