di Gennaro Carillo
Professore ordinario di Storia del pensiero politico, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
The Belliner n.27

Il mito oscilla tra due estremi: la ripetizione e la variazione. È la ripetizione che consente il riconoscimento da parte del pubblico, l’identificazione di un mito come quel mito specifico e non un altro. Al tempo stesso, è la variazione il sintomo della continuità del mito, di un lavoro – come lo chiama Blumenberg – di cui non è dato vedere né l’origine né la fine. E la variazione può spingersi fino alla profanazione, alla trivializzazione, arrivando a sottrarre al mito quel ‘tremendo’ – il deinon – che ne contraddistingue le versioni più remote. O anche a cancellare pressoché tutte le tracce di queste versioni. Ma quel pressoché implica che non tutto può essere rimosso, che deve persistere un nucleo – fosse anche soltanto in forma di allusione – perché il mito sopravviva. Puoi leggere e rileggere Pornografia, di Witold Gombrowicz, e disperarti perché il mito di Atteone, al quale lo scrittore dichiara di ispirarsi, non riesci a individuarlo da nessuna parte. Poi, un piccolo indizio, sul quale magari hai sempre sorvolato, ti rivela la presenza del tema, seppure ridotto all’essenziale, a una traccia labilissima e fantasmatica: che è quanto accade anche con il trattamento joyciano di Omero. 

Il mito intrattiene con il tempo un rapporto del tutto peculiare. Le favole antiche provengono da un altro tempo, non storico o comunque lontanissimo dal presente della messa in scena. Diego Lanza lo definisce un tempo senza tempo. Per questo, la nostra comprensione dell’archaia – la commedia attica antica – risulta molto più difficile e ha bisogno di maggiori mediazioni rispetto a quella di una tragedia classica: perché il tragico, elaborando una materia mitologica, è come svincolato dal tempo storico. Il mito è un altrove che consente di tenersi a una distanza di sicurezza da quella realtà contemporanea o da quella storia più o meno recente alle quali attinge invece a piene mani la commedia. Il cui tempo è dunque un tempo reale: il tempo dell’azione coincide con quello della ricezione. Il che spiega sia perché siano così frequenti le rotture dell’illusione drammatica (che chiamano in causa gli spettatori o svelano l’artificio teatrale), sia perché dalla scena comica possano partire messaggi politici anche espliciti e violenti indirizzati a un pubblico ‘provocato’ a tradurli in atti concreti, una volta fuori dal teatro. Ma il pubblico di oggi, quei messaggi e quei riferimenti di immediata intelligibilità per lo spettatore ateniese di V secolo a.C., non può coglierli se non con l’aiuto di storici e filologi. E non è neppure detto che storici e filologi siano sempre in grado di decifrarli. Per non parlare del problema della traduzione, che aggiunge distanza a distanza, frustrazione a frustrazione. 

Tutto questo non vuol dire che la tragedia sia più ‘facile’ o che il poeta tragico sia immune dai condizionamenti del contesto. La stilizzazione estrema ingenera solo una parvenza di chiarezza. Sulla scena tragica – ha scritto George Steiner – i conti non tornano. Non tornano con gli dei. Ma non devono tornare in generale: le tragedie più riuscite sono proprio quelle in cui è impossibile rendere ragione (logon didonai) di quanto accade. Quelle delle quali ci sfugge il senso, ogni qual volta pensavamo di averlo afferrato. Edipo è dunque l’eroe tragico per eccellenza in quanto personificazione di un enigma destinato a rimanere tale, dopo secoli di interpretazioni anche geniali ma tutte ugualmente votate allo scacco. Considerata da un angolo visuale umano, la sua vicenda non ha senso. O meglio la logica rigorosa che presiede al suo svolgimento, quella che Carlo Diano chiama la «coerenza del dio», si sottrae alla comprensione dei mortali. Incluso Edipo stesso, che pure è un risolutore di enigmi con la sola forza dell’intelligenza razionale. Scrive ancora Diano: «di fronte a Dio […] ogni sapienza è cieca». Che un Edipo ormai prossimo alla morte dichiari di aver «subìto, anziché commesso» ciò che gli viene imputato (Sofocle, Edipo a Colono, 266-267), non esclude affatto la sua colpevolezza «nella sfera del sacro». 

Tragùdia di Alessandro Serra – al quale si deve già un memorabile Macbettu in lingua barbaricina preserva questo cuore nero della storia di Edipo, la sfasatura tra piano umano e divino. L’intuizione di far tradurre Sofocle in grecanico da Salvino Nucera risponde proprio all’esigenza di interrompere la ricerca di un significato e di ‘accompagnare’ Edipo nella sua regressione verso l’informe. 
Il grecanico è una lingua-fantasma, un fossile, un relitto arcaico, impuro, contaminato. Lo parlano ancora in pochissimi, in quelle che non a caso vengono denominate isole linguistiche. Ascoltarlo è un’esperienza perturbante. In senso tecnico: perché questa parlata minoritaria suona a un tempo estranea – barbara – e familiare, insieme viva e morta. Tragùdia ci chiede di abbandonarci al suo flusso, proiettandoci in un mondo semiferino, popolato di mostri. Che è il tragico nell’accezione anticlassica di Nietzsche e Aby Warburg, poi di Pasolini e Giorgio Manganelli.

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