di Francesco D’Acunzo
Per i suoi trent’anni di attività la compagnia tedesca Familie Flöz ha scelto di celebrare ciò che da sempre costituisce l’altro polo della sua scena: il pubblico.
Finale – un’overture, regia di Hajo Schuler, si apre tra gli spettatori, con gli spettatori. Prima ancora che tutti abbiano preso posto, al Teatro Bellini di Napoli – dove lo spettacolo debutta in prima nazionale il 15 ottobre, dopo la prima mondiale al Berliner Ensemble – piccoli gruppi di spettatori sono invitati a salire sul palco, a esplorarne gli spazi, a incontrare quelle maschere che, da decenni, costituiscono il volto del teatro del gruppo tedesco.
L’impiego della maschera in mondi privi di parola costituisce, infatti, la principale cifra distintiva dei lavori di Familie Flöz. Essa è insieme schermo e soglia: un ostacolo fisico che il pubblico tenta incessantemente di superare per cogliere ciò che si trova oltre ed è proprio in questa tensione che si ingenera una relazione dialettica e continua tra scena/platea.
Ciò che appare come un filtro, una barriera, anteposta all’espressività così com’è canonicamente intesa – quella del volto, barometro di emozioni e sensazioni – diventa invece un occhio di bue puntato su una nudità svelata di cui ogni movimento di braccia, mani, finanche delle dita, ogni respiro, ogni inclinazione del capo, diventano una dichiarazione d’intenti, un manifesto poetico di una storia latente intrinseca alla maschera e sublimata dalla modulazione della presenza scenica.
Ma ciò che plasma e orienta l’azione, determinandone la temperatura emotiva, è lo sguardo del pubblico, il «narratore amorevole» che col suo occhio-obiettivo fotografa il tempo extradiegetico della compagnia e quello diegetico dei personaggi.
In Finale ad abitare la scena sono figure archetipiche, frammenti di un’umanità universale dalle sfumature tragicomiche: il proprietario di un negozio notturno tenta di rispondere ai bisogni di una clientela eterogenea fino all’abnegazione; un figlio, travolto dalla malattia della madre, scopre il centro di una crisi identitaria in un tempo ospedaliero sospeso; una giovane donna si ritira tra i boschi in cerca di armonia con la natura, ma la pace si incrina a causa della violenza dell’uomo.
Il fallimento, nucleo tematico ricorrente, diventa il canale attraverso il quale i tre attori Fabian Baumgartner, Lei-Lei Bavoli e Mats Suthoff, entrano in contatto con il pubblico in un’esperienza condivisa e trasversale. La “sconfitta” è esorcizzata dal tono destabilizzante con cui la maschera cerca lo sguardo complice e comprensivo del pubblico che spesso sorride riscattando l’azione.
A supportare la potenza evocativa dei personaggi, in un universo privo della fissità delle parole, dove il senso nasce dal contatto diretto tra corpi e oggetti, interviene la macchina scenica improntata da Stephane Laimé e Mascha Schubert, uno scheletro di cornici geometriche ora cave, ora piene, che coniuga funzionalità e leggerezza visiva.
Le musiche e i “rumori” dal vivo di Vasko Damjanov e Almut Lusting definiscono l’anima dei personaggi tanto quanto le loro maschere determinandone le attitudini e i respiri emotivi, risultando elementi imprescindibili del processo creativo.

