di Federico Bellini
Dramaturg
The Belliner n.43
Morte accidentale di un anarchico segue a breve distanza temporale Mistero Buffo e inaugura una nuova stagione dell’impegno politico che vedrà Fo e Rame incorrere in ostacoli, censure, arrivando ad essere considerati alla stregua di autentici sovversivi del teatro. Nei fatti, Dario Fo e Franca Rame lo furono davvero, sovversivi, e non solo per l’intervento attivo nell’agone politico dell’epoca; dopo i successi delle prime opere, decisero, come noto, di uscire letteralmente dalle istituzioni teatrali, proponendo i propri spettacoli ad un pubblico ampio e in grado di pagare un biglietto perlopiù simbolico.
Frequentarono Circoli Arci, Festival dell’Unità, Università, con spettacoli a cui seguivano lunghissimi dibattiti con gli spettatori; idearono strutture sceniche che nulla avevano a che spartire con i palchi della tradizione, e, soprattutto, crearono di fatto un linguaggio teatrale del tutto rivoluzionario, di cui l’invenzione o la riscoperta del grammelot fu il caso più eclatante. È difficile parlare di Morte accidentale di un anarchico non solo isolandolo dal contesto storico di riferimento, ma anche dalla parabola artistica di Dario Fo. Molte intuizioni che avevano informato, ad esempio, “Mistero buffo”, sembrano ricorrere anche in questo testo apparentemente assai diverso; innanzitutto il recupero di alcuni stilemi della Commedia dell’Arte, qui evidenti nella rappresentazione della farsa e forse, soprattutto, nella creazione di personaggi-maschera del tutto lontani da ogni psicologia del personaggio. Perchè se è vero che Fo tratteggia nell’opera figure che hanno ovviamente un corrispettivo nella realtà dell’epoca, al tempo stesso le caratterizza come archetipi grotteschi a cui paradossalmente pare sfuggire il motore dell’azione, il Matto, l’istrione a cui, come al fool di Shakespeare, viene demandata ogni possibilità di dire la verità. Oggi appare piuttosto incredibile come Fo abbia potuto fare satira su uno degli avvenimenti più violenti e cruciali del dopoguerra italiano, non fosse per un autentico atto di fede nelle potenzialità della satira stessa, capace di incidere sulla realtà forse più di ogni tentativo di rappresentazione documentaristica; così è possibile arrivare allo “sghignazzo” pur parlando della morte di Pinelli e suggerendo forse, le successive, tragiche implicazioni.Molto è racchiuso in quell’aggettivo, “accidentale”, che ha già in sé tutto l’improbabile, e probabilmente il comico, che involontariamente attraversa la tragedia del ferroviere anarchico: com’è possibile cadere “accidentalmente” da una finestra senza alcun concorso di colpa o “aiuto” esterno? Si dice, nel testo, in una delle tante versioni sulla sua morte, che Pinelli fu colpito da un improvviso “raptus”; una ricostruzione dei fatti che, a distanza d’anni, lascia più allibiti che indignati. Nel cosiddetto raptus, l’anarchico avrebbe dovuto farsi beffa di ogni tentativo di bloccarlo per precipitare, lanciandosi con salto, da una finestra misteriosamente aperta nonostante il freddo, per una sorta di desiderio suicida incontrollabile. Quando Fo dichiara di aver semplicemente riportato su pagina molte delle testimonianze raccolte dopo l’evento, soprattutto quelle degli organi di Stato, non fa che tracciare i contorni di quella Commedia, umanissima e terribile, che informa un fascicolo di Storia ancora aperto e forse senza soluzione. Certo, ne esaspera i contenuti, copre i suoi personaggi con maschera satirica, ma a ben guardare la satira è già insita nei tentativi di discolpa, o nelle prime versioni ufficiali fornite sull’accaduto, che sembrano più lazzi da Zanni piuttosto che studiate strategie di difesa. In tutto questo, come detto, Fo mette al centro dell’azione il perno del suo teatro, il Matto che per le sue capacità mimetiche non fa che rimandare paradossalmente sempre a se stesso, in quanto sceglie di essere maschera; e’ la consapevolezza che informa l’attività di ogni giullare, la cui follia apparente gli consente di andare ben oltre ciò che si può dire, e al contempo di assumere ogni ruolo o identità possibile, a seconda del bisogno e del momento. Tuttavia, in questa commedia che sfocia presto nell’assurdo, Fo sente il bisogno, nella seconda parte, di riportare con precisione le fonti della sua contro-inchiesta sul caso, assumendo di fatto, nella pièce, una preparatissima giornalista che pare in tutto e per tutto Camilla Cederna, allora firma de «L’Espresso». Così, tra citazioni di frasi attribuibili, nella realtà, a Cederna, e le tesi che quasi giornalmente venivano fornite a Fo dagli avvocati della difesa di Pinelli, l’autore finisce per comporre un testo che ancora una volta ha contatti con la Commedia dell’Arte, un canovaccio da aggiornare ogni sera seguendo l’andamento e le rivelazioni del processo in corso, in una creazione che passa quasi senza soluzione di continuità dal tribunale al palcoscenico, probabilmente per suggerire il dovere di compiere il percorso inverso.