di Stefano De Matteis
Antropologo e saggista italiano, autore di “Napoli in scena: antropologia della città del teatro”
The Belliner n.25
Era raro che Eduardo De Filippo desse, ad attori o registi, il permesso di rappresentare i suoi testi. Quando poi è subentrato il figlio Luca, le maglie si sono allargate e, successivamente, si sono estese, al punto da dare l’impressione d’essere scomparse, fino a creare una sorta di euforia e di sovrabbondanza tanto in teatro quanto in tv che inizialmente ha contribuito al suo successo e oggi lo ripropone persino “sceneggiandolo”: ha riportato il napoletano dei testi a un italiano ancor più presente di quanto lo fosse in origine e ha mostrato i suoi personaggi anche fuori dalla scena: Luca Cupiello va a comperare gli ultimi pastori sotto la neve – cosa, come si sa, abituale per Napoli –; e Filumena Marturano dirige gli operai, facendo saldamente gli interessi di Domenico Soriano. In tutta questa ridondanza eduardiana, molte cose sono andate perse. Ignorate o dimenticate, cancellate o rimosse. Contribuendo a un processo di normalizzazione dell’attore e dell’autore. Due aspetti imprescindibili che viaggiano unitamente a quello dell’impresario. Questa triade struttura la sua unica ed eccezionale radicalità.
Eduardo, intellettuale di sinistra, era attento ai “mezzi di produzione” e quindi si era munito dello strumento per lui essenziale, il teatro (Lino Musella lo ha raccontato in Tavola tavola, Chiodo chiodo). E di una compagnia di attori quasi fissi. Il tutto sostenuto dal repertorio, in modo da costruire cartelloni dove alternare lavori nuovi a vecchie commedie. Nella totale indipendenza, lontano dalla burocrazia, dalle logiche e delle regole ministeriali. Realizzando un teatro d’arte come pochi ce ne sono stati, retto da disciplina, misura e rigore.
E ha narrato un suo mondo fatto di donne e di uomini costretti, come rotelle, in un meccanismo sociale che schiaccia, riporta tutto “a una dimensione”, per “modellarti” come gli altri ti vogliono. E questo grazie innanzitutto al “sistema famiglia” che stritola e mente, perché retto da invidie e pronto a ogni cattiveria. Un mondo di camere da letto e stanze da pranzo, di campane con i santi e cristalliere per il servizio “buono”, a disegnare un universo quasi infernale di una piccola borghesia diffusa. E lui, con i suoi tanti personaggi, a combattere contro tutto questo. Solo. A recitare contro. Magari dando le spalle al pubblico e guardando con distacco tutto questo pullulare di trame oscure, questo groviglio di interessi sotterranei e di speranze avvilite. A urlare, come Luca Cupiello, la perdita dell’innocenza. L’attore lavora contro l’autore. Questo mondo era per lui una tale ossessione, al punto da farne l’asse portante di uno dei suoi ultimi lavori, di certo non il migliore, ma indicativo da questa prospettiva: Gli esami non finiscono mai.
Mi ricordo di aver passato nottate con Perla Peragallo e Leo de Berardinis a sentire Filumena Marturano da un vinile pubblicato all’epoca. Perla insisteva: «Titina è grandissima, lei è Charlie Parker, Eduardo non ce la fa a starle dietro». Era vero, ci sono voluti anni perché Eduardo diventasse grande come l’attore che conosciamo e ricordiamo, che recita senza parlare e i cui silenzi sono musica. Forse perché non doveva essere facile governare la “trinità” che incarnava.
Pochi giorni fa mi è capitato di rivedere Sophia Loren in Matrimonio all’italiana: diceva le battute di Filumena seduta al tavolo con Mastroianni di fianco. La sillabazione, l’armonia dei fiati, la scansione musicale delle parole, il ritmo ossessivo, serrato e implacabile che trasforma le parole in lame che si infilano nelle carni di lui trafiggendolo… impossibile che non abbia riflettuto su quella vecchia interpretazione di Titina e, senza imitarla, riusciva a reinventarne il senso, ricavandone una eco di quella essenziale radicalità espressiva.
La lezione di Eduardo si può “imparare”. Per via diretta, tramite Carlo Cecchi, ad esempio, che gli fu in compagnia, raggiunge Arturo Cirillo e da lui Roberto Capasso. Oppure per opposizione, ricomponendo quel rigore, riconquistandone il senso e rifunzionalizzandolo alle necessità dell’oggi, come ha fatto Leo De Berardinis nello straordinario Ha da passà ’a nuttata.
Contro questo mondo di conflitti, questa etologia delle frizioni, di donne e uomini che si graffiano in un circo in cui si nascondono cattiverie, miserie, grettezze e piccolezze, Eduardo agisce e si oppone. Non solo con la strategia narrativa dei suoi personaggi, ma con il suo stesso corpo, le sue mani, i suoi sguardi…
Ebbene, in questi quarant’anni, tante cose sono cambiate, compreso il teatro. E anche Eduardo: quello di cui parlo quasi non c’è più. Pian piano, un passo alla volta è stato annesso al circo della famiglia, al carrozzone dei buoni sentimenti dichiarati e mostrati “per far vedere”. E, come una volta si faceva con le bambole, l’hanno sistemato in bella mostra al centro del letto matrimoniale. Immobile. Muto. È diventato una statuina di quel finto presepe sociale a cui lui contrapponeva un mondo sì fatto di sughero, ma magico esattamente come il teatro.