di Claudio Finelli
Professore di italiano e latino e Delegato Cultura del direttivo provinciale di Arcigay Napoli
The Belliner n.24
Per chi è cresciuto immerso nelle suggestioni restituite dalla scena, per chi ha vissuto, al contempo, il personale svelamento di un’identità difforme, di un eretico stare al mondo, Napoli non è un ventre cittadino come tutti gli altri, ma il ventre per eccellenza: Napoli città/teatro in cui si contaminano lingue e culture, in cui non c’è soluzione di continuità tra “alto” e “basso”, in cui sogni e incubi si confondono, quotidianamente, con la realtà, in un sistema catottrico e barocco di rifrazioni misteriose e improvvise.
In questa Napoli Babilonia, gremita di voci e seduzioni, s’incontrano e si raccontano, si amano e si affrontano, musici e rimatori, attori e scrittori, guappi e femminielli, in un continuo rutilante rimescolamento di generi e di ruoli, di corpi e identità, che fa saltare qualsiasi tentativo di definizione sociale, qualsiasi standardizzazione di regole e costumi.
In questo contesto sociale e culturale, perfino la dimensione della quotidianità assume, per chi la vive con animo sgombro da pregiudizio e scevro da moralismo retorico e borghese, una temperatura quasi rituale, mutandosi in crogiuolo in cui colano e si fondono sacro e profano, immanente e trascendente, tradizione e trasgressione: già di per sé, allora, il solo attraversamento del ventre cittadino, diventa un’avventura esaltante, lirica e teatrale, in cui l’aspetto performativo, quello magico-liturgico e quello ludico-ricreativo diventano un tutt’uno.
Così, con lo stesso entusiasmo che ci spingeva, quando eravamo giovani negromanti, alla scoperta di fenomeni inediti e sconosciuti, continuiamo ancora oggi ad attraversare la città teatro, la città babelica e mestruata, il paradiso abitato da diavoli, alla ricerca della sua voce inafferrabile ed arcana – canto di Sirena, fiato di spiritello dispettoso, esoterico richiamo distillato nell’alambicco del principe massone – trascinandoci tra i Decumani, Forcella, il Rione Sanità e i vicoli dei Quartieri Spagnoli, tra i protagonisti di una scena underground e metropolitana, antichissima e postmoderna, dalla cui fascinazione siamo stati segnati per sempre.
In questo spazio, fatto di vicoli che si intrecciano tra loro, di astruse geometrie coi panni al sole, siamo cresciuti a contatto con un’idea d’umanità che non si adegua, fluida e non binaria, distante da qualsiasi soluzione identitaria conforme e regolare: dai protagonisti de la figliata raccontata nelle pagine di Curzio Malaparte a Rosalinda Sprint di Giuseppe Patroni Griffi, che scende giù da Toledo con la chioma resa impeccabilmente bionda dalla celebre camomilla Schultz, dall’indimenticabile Jennifer di Annibale Ruccello, malinconico e disperato femminiello che attende inutilmente la telefonata del suo amato Franco a Scannasurice di Enzo Moscato, simbolo di un’esistenza dolente, precaria e poetica, incarnazione di ogni contraddizione, di ogni conflitto, profondamente radicato nelle viscere “terremotate” di questa città.
Viscere che da sempre accolgono chi non si riconosce in relazioni conformi e stabilite, viscere in cui da quarant’anni ha sede uno dei più longevi presidi della comunità LGBTQI+ italiana, il circolo Antinoo Arcigay di Napoli, tra gli organizzatori, nel giugno del 1996, del primo Gay Pride del Sud Italia, punto di riferimento per chi cerca confronto, tutela e protezione con sportello legale e supporto psicologico, con i servizi e i protocolli dedicati al benessere e alla salute della comunità, con la sua casa d’accoglienza e con la sua costante presenza in sostegno di carcerati e rifugiati (Sportello Migra_Antinoo), con il suo centro di documentazione/biblioteca dedicato al grande Paolo Poli e le sue molteplici attività letterarie, artistiche, teatrali e culturali.
Napoli, insomma, sarà per sempre un serbatoio inesauribile di immagini e visioni per ogni artista, per ogni pensatore, per ogni acchiappanuvole che crede nell’amore: avamposto di resistenza per antonomasia, pronta a salire sulle barricate contro l’omologazione imperante con lo stesso spirito guascone e rivoluzionario con cui, i suoi femminielli, a San Giovanniello, guidarono la rivolta armata contro le truppe di occupazione naziste, in quel glorioso settembre del ’43.
D’altronde, Pier Paolo Pasolini lo ha rivelato circa cinquant’anni fa: «i napoletani appartengono a una grande tribù, una tribù che ha deciso di non arrendersi alla cosiddetta modernità, e questo suo rifiuto è sacrosanto (…) Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati)». E per il momento, ci siamo ancora, con le nostre esclamazioni e le nostre escandescenze, protagonisti irriducibili di questa irripetibile città teatro.