Conversazione con Annalisa D’Amato (A.D.), Antonin Stahly (A.S.), Elvira Buonocore (E.B.)
a cura di Bruno Roberti, Critico di cinema e teatro e docente di spettacolo all’Università della Calabria
The Belliner n.34
Cominciamo dal titolo: Orpheus Groove. Intanto c’è Orpheus Shivandrim, questo fisico del suono ma che è anche un poeta e un musicista, un mistico e uno scienziato insieme. È il vostro Orfeo. È lo sciamano che risveglia con il suono, ridà vita. Poi c’è Groove, che è l’incisione, la fenditura…
A.D. …il solco
Quindi qualcosa che ci incide dentro. A un certo punto dello spettacolo viene fuori che questo ha a che fare con la ‘memoria’ che si deve risvegliare dentro di noi, dentro la ragazza che sente il ‘suono della fine’. Infatti nel verbo ‘ricordare’ c’è sia l’accordatura sia il cuore: è dal ‘cor’ che si trae il ricordo.
A.D. Appunto. Come il diapason che la protagonista, in un punto cruciale dello spettacolo, riceve e lo custodisce sul cuore.
Il ricordare è insito nell’Orfismo, con il viaggio dell’anima e la divinizzazione della memoria come Mnemosyne. L’anima ha di fronte a sé nel suo discendere nell’Ade i due fiumi, Lete e Eunoè, da un lato l’oblio e dall’altro la memoria.
A.D. Infatti noi citiamo la laminetta orfica che si trova al Museo Archeologico di Napoli, dove si dice: “Io sono la figlia della Terra e del Cielo Stellato”. Per noi diventa il poter dire, in questa ‘scordatura’ del mondo contemporaneo, che è fondamentale ricordarci chi siamo. In questa ‘riconnessione’ tra la terra e il cielo…
Che è una riarmonizzazione. Siete partiti coraggiosamente da qualcosa che oggi ci attanaglia: la perdita dell’armonia e questo ‘suono della fine’ che ci circonda, cui tendete l’orecchio per percepirne il dolore, lo sgomento. Può essere una esperienza abissale. Ci vuole coraggio per costruire una sorta di ‘rito propiziatorio’, di cerimoniale per riarmonizzare e guarire il mondo. La vostra Euridice in realtà è il mondo che deve essere emendato. È l’Anima del Mondo…
A.D. Sicuramente abbiamo voluto lavorare sul fatto che per me dobbiamo sempre domandarci, quando facciamo uno spettacolo contemporaneo, una scrittura dell’oggi: “come sta il pubblico?”. Mi piace fare un lavoro che non sia solo in rapporto con me stessa ma che ascolti come sta lo spettatore oggi. La domanda da porsi è “a chi sto parlando?”. La risposta in questo caso era: “sto parlando con una società, con un pubblico malato, che non sta bene, come forse non sto più bene neanche io”. Quando incontriamo qualcuno e gli chiediamo “come stai?”, magari ci dirà “bene” ma spesso aggiungerà “sono stanco”. Questa ‘stanchezza’ che ritroviamo intorno a noi ha condotto il filosofo Byung-Chul Han a scrivere un libro che appunto si intitola La società della stanchezza. La stanchezza non va presa sotto gamba, ma è l’inizio di una profonda discesa, e della dimenticanza di noi stessi.
Come avete lavorato a riversare tutto ciò in una tessitura fatta di musica, di suono, di movimento, di danza ma anche di corpi, del loro peso specifico?
A.S. Se da bambino il mio sogno era suonare con gli attori, ciò che ho scoperto con Annalisa è che il suonare stesso poteva diventare una azione in teatro. E questo per me ha realizzato un altro sogno: come danzare con il violino? C’è una cosa però che pensavo impossibile: poter suonare e recitare un testo allo stesso tempo. Se chiedi a qualsiasi violinista ti diranno tutti che è impossibile. Sono andato dal mio ultimo maestro di violino a Parigi e gli ho chiesto che cosa ne pensasse di suonare Bach e recitare allo stesso tempo, lui mi ha risposto che era impossibile. Invece lo abbiamo realizzato in questo spettacolo.
Voi lavorate su un mito. La ‘fabula’ di Orfeo, come ogni favola, dice delle verità sacre travestendole. Per la vostra Euridice, sprofondata nel buio, nell’oscuro suono della fine, come Tamino all’inizio del Flauto Magico, si apre una possibilità. C’è un richiamo nella notte dell’anima. Si incontra un ‘guardiano della soglia’ che nel vostro caso è lo scienziato che dice “O dentro o fuori. Si apre la finestra delle opportunità”. Chiedo a Elvira Buonocore, che ha lavorato con voi alla drammaturgia come si è affrontata la materia di un mito universale come quello di Orfeo.
E.B. A proposito del percorso drammaturgico, ripensando al lavoro mi viene da dire che si è trattato di un percorso molto articolato e complesso, per diverse ragioni che si intersecano. Una prima difficoltà è connaturata al materiale mitologico da trattare. Lavorare su un mito che paradossalmente è molto conosciuto e al tempo stesso sconosciuto. Su un piano è parte integrante della nostra cultura, su un altro piano si tratta di un materiale molto stratificato che possiede una serie di livelli sempre più profondi e complessi, Per cui maneggiare questo materiale e cercare di interrogarlo su diversi piani di analisi non è stato facile. Anche perché il tentativo è sempre stato quello di andare oltre il racconto in sé, per accedere a un piano simbolico del mito e interrogarlo in profondità.
Questo comporta il fatto che il pubblico fin dall’inizio ha la possibilità di entrare nel lavoro e di vivere il mito come un processo di individuazione, anche in senso junghiano. Si può accettare la sfida, mettersi in gioco e entrare oppure restarne fuori. La vostra Euridice accetta la sfida. È Orfeo a sparire e lei a tornare alla luce vestita di bianco. Capiamo che lei è l’anima che deve attraversare le varie fasi: dal nero al bianco fino al rosso dell’abito nella danza finale. Sono le tre fasi dell’opus alchimistico: opera al nero, opera al bianco, opera al rosso. Nigredo, albedo e rubedo.
A.D. La promessa della ‘scordatura’ che deve arrivare all’accordatura, attraversando le fasi della cura, riconnettendosi con l’universo. Ognuno ha la sua propria nota, lei l’aveva persa e per ritrovarla dovrà compiere un viaggio nella sua ombra per scoprire il proprio suono. Questo è anche retaggio del sufismo. C’è un libro molto bello a cui anche ci siamo ispirati: Il misticismo del suono di Hazrat Inayat Khan. Quando lei accede alla notte dell’anima, muore una parte di sé. Come dice il testo di Rumi: “La mia vecchia vita era una frenetica fuga dal silenzio”. Tutto ciò prende avvio anche in quell’istante in cui si scopre che nel suono della fine può esserci quello dell’inizio, e lì può contenersi un messaggio, che è “ricordati chi sei”. Il riconoscimento si inscrive e risuona: “Sono la figlia della Terra e del Cielo Stellato”. Ora la sua nota pura è in grado di risuonare, ponendo sul cuore il diapason che le è destinato.