di Stefania Zolotti Direttrice di SenzaFiltro The Belliner n.23
Senza Vitaliano Trevisan, quando si parla di lavoro, non è più la stessa cosa. Non perché manchino in giro voci o penne degne – poche, pochissime, esistono – ma perché il lavoro ormai chiede durezza, nessuno sconto, e lui sapeva trattarlo così dopo una vita a raccontarlo, patirlo, sprofondarcisi dentro. Guardava in faccia il lavoro come a un amico che ci ha fatto incazzare, e qualcuno glielo deve dire. È finita la poesia del lavoro che ci nobilitava, non ci basta più per campare.
Il più fortunato è il laureato che ha iniziato a lavorare nel 1975: lo avevo letto qualche anno in una ricerca che metteva in relazione i salari con le generazioni degli ultimi decenni, lo ritagliai, lo misi da parte, quella frase era già conferma della deriva odierna.
E ancora: le persone che hanno iniziato a lavorare nel 1975, quando avevano tra i 25 e i 27 anni, sono quelle che hanno raggiunto i migliori risultati di paga mensile dopo 30 anni; la stessa fascia d’età, ma col primo lavoro dall’85 in poi, aveva già guadagni parecchio inferiori. Da lì in avanti così, fino a oggi, fino alla certezza che i figli non salgono più scale sociali rispetto ai padri, spesso nemmeno rispetto ai nonni, facendo debite proporzioni.
Proporzione è la grande assente se si parla di lavoro, dovrebbero risponderne la politica, le istituzioni, i sindacati, le imprese: è il rapporto di misura tra elementi collegati da una relazione e non deve mancare tra il dare e l’avere, tra il lavoro fatto e il compenso ricevuto, tra le persone che siamo e quelle in cui potremmo evolvere se ci permettessero di essere pagati, gratificati, sicuri non tanto nella durata quanto almeno nell’incolumità fisica e psichica, tra il diritto di vivere meglio e quello di non ammalarci, non romperci dentro e fuori, per un po’ o per sempre.
Penso che l’Italia abbia molti più morti sul lavoro dei tre al giorno che finiscono in statistica e spariscono in fretta tra notizie sfiancate dalla banalità: la morte intriga il pubblico ma se non lo sfami a dovere lui si annoia. Ai giornalismi di facciata sopravvivono solo storie che fanno clamore o che ingolosiscono per i dettagli, la dinamica dell’incidente, se era sposata o avesse figli, se l’operaio straniero fosse dell’est o del sud del mondo, se l’ultimo fiato sia stato tirato mentre volavano giù o li schiacciava un peso o gli bruciava talmente la pelle da dirci addio.
C’è chi parla di destino, altri dicono il fato, non credete a nessuno, si muore per colpe. Nella classicità il fato era prerogativa divina e il destino nelle mani dell’uomo: qui siamo figli di disinteressi e rimpalli, rendicontazioni e sfruttamenti, numeri più che persone. I morti sono molti di più perché sono ancora vivi, siamo vivi: ogni giorno mentre andiamo a fare il nostro dovere per un Paese che ci ha ammazzato intenzioni e sentimenti, ci ha barattato i diritti coi ricatti, conteggia solo costi da abbattere e tempi da ridurre. Non moriamo solo di amianti, di leggerezze nei controlli, di manutenzioni cagionevoli e pallide, stiamo morendo di vuoti di senso e ogni morte sul lavoro ci dà parente.
Il teatro è l’unica forma capace di gridare ancora come Trevisan dalle sue pagine, servono voci e corpi che rivendichino vita.
Di tutti i suoi libri, è con Works che ci trafigge.
Meriterebbe un palco anche Trrevisan, avvezzo alle tragedie più degli Dei.
”Perché trovo sempre un lavoro?, mi dicevo.
Perché non mi lasciano andare alla deriva in pace?
Diventare un barbone.
Una delle possibilità che contemplavo, che contemplo tuttora. Poi non ho coraggio.
Mi viene in mente mio padre, il poliziotto Arturo, e la sua divisa, sempre impeccabile; e mio nonno, la dignità con cui indossava il suo vestito da festa.
Assurdità che sempre mi ritornano. L’origine è un vestito che uno non smette mai”.