conversazione con Claudio Longhi e Lino Guanciale a cura di Eleonora Vasta
The Belliner n.39
Claudio Longhi – regista – e Lino Guanciale – dramaturg e interprete del personaggio della Fata, – come vi siete imbattuti nel romanzo di Pedro Lemebel Ho paura torero e perché avete sentito la necessità di metterlo in scena, oggi, al Piccolo Teatro?
LG – L’origine della mia fascinazione per Lemebel è domestica e mi riguarda personalmente, perché da diverso tempo ho un amore per gli autori sudamericani contemporanei. Mia moglie, in cerca di un regalo per me, è uscita per acquistare “un Bolaño”, ed è tornata a casa con “un Lemebel”, suggeritole da uno dei nostri librai di fiducia.
Mi sono immediatamente innamorato di Ho paura torero, più ancora che per la grande storia che vi si respira, per lo stile, per la qualità della scrittura di questo piccolo romanzo “fluviale”… Da lì è nata una grande curiosità per l’autore, di cui ho subito messo a parte Claudio, con cui ci conosciamo da vent’anni e condividiamo letture, anche non necessariamente legate a progetti teatrali. Così, quando ci siamo trovati a fantasticare su cosa scegliere per lavorare insieme al Piccolo, gli ho detto: «Perché non dai un’occhiata anche a questo?», alimentando il passaparola attorno a uno scrittore che davvero lo merita.
CL – Effettivamente, da molto tempo, ci stavamo confrontando su quale potesse essere il testo giusto per tornare a collaborare in un contesto particolare – considerando che per la prima volta mi sarei trovato a firmare la regia di uno spettacolo al Piccolo in qualità di direttore del teatro. Ne parlavamo da mesi e avevamo battuto vie anche molto diverse, ma quando Lino mi ha fatto leggere Ho paura torero, ammetto che è stata una specie di folgorazione. La fascinazione è dovuta sia alla qualità del linguaggio e della costruzione – questo strano barocco che possiede una grazia e una leggerezza incredibili, con un’invenzione linguistica straordinaria –, sia al rapporto insolito con la macchina narrativa e con la trama. È un testo che, appunto in virtù del linguaggio, sembra “scappare” da tutte le parti ma al tempo stesso ha una concentrazione drammaturgica, una misura, una tensione tipiche della forma drammatica più che del romanzo. Oltre al fascino del linguaggio – che risuonava particolarmente con la stagione 23/24 e con la centralità riservata al suo interno alla “parola” – credo sia importante l’invito costante a fare i conti con la storia e con ciò che è stato. Un’esortazione che sento necessaria in un presente che tende a soffrire di amnesia e rischia di essere un po’ esangue, perché non nutrito da alcuno spessore e privo di sedimentazione. Non solo. Allo stesso tempo è un’opera che sottolinea anche il rapporto tra piccola e grande storia, ovvero tra la nostra quotidianità e il contesto in cui essa si colloca, esplorando la relazione tra questi due universi narrativi entro cui tutti siamo immersi. Senza trascurare che oggi si dibatte molto di educazione sentimentale e affettiva e, in un modo a un tempo trasversale e direttissimo, Ho paura torero pone il problema del rapporto con l’affettività e della sua gestione. La grazia con cui tutte queste prospettive e possibilità convivevano dentro questo romanzo mi e ci ha fatto dire che, forse, era la scelta giusta al momento giusto.
Quali obiettivi vi siete dati, nel lavorare sulla drammaturgia, per trasportare l’opera di Lemebel dalla narrativa alla prosa teatrale?
LG – Davanti all’opzione di mettere in scena un romanzo si aprono almeno due strade fondamentali: la prima è ridurlo, esattamente come succede quando da un’opera di narrativa si trae una sceneggiatura non originale per il cinema o la televisione. È un’operazione non nuova per il teatro: i dialoghi si tramutano in battute e la parte diegetica in didascalia. La seconda possibilità, che è stata rivoluzionaria e nel nostro Paese è stata percorsa da Luca Ronconi, è invece quella di portare in scena una “edizione teatrale” del romanzo: in questo modo non si rinuncia alla terza persona né alla scrittura originaria, con tutte le sue implicazioni descrittive e di costruzioni di spazi e di volumi. La nostra scelta, logicamente, è stata questa. Del resto, ridurre Ho paura torero ai soli dialoghi tra i personaggi avrebbe l’effetto – e lo dico senza offesa, perché è lo stesso Lemebel, in certi momenti, a far respirare quell’aria – di una bella epopea “telenovelesca” sudamericana. La forza della sua scrittura sta in quell’altrove, che conferisce forza, spessore e verità alle interlocuzioni tra i personaggi, molto semplici ma assai pregne. Battendo questa seconda via, quello che abbiamo fatto, fondamentalmente, è cominciare a lavorare di selezione. Nel regista e drammaturgo argentino Alejandro Tantanian abbiamo trovato una sponda geniale e, in virtù della natività linguistica, anche essenziale per riuscire a trarre, negoziandola con noi, una prima versione del materiale da portare in scena. Su quello siamo intervenuti selezionando ancora, integrando qua e là frasi tratte da altri scritti di Lemebel. In qualche modo, Ho paura torero è una sorta di “lemebeleide”: vi si riconoscono e precipitano dentro il testo, in forma di “distillato”, migliaia di altri elementi, scritti e dispersi tra cronache radiofoniche, frammenti pubblicati sui giornali, o in accompagnamento a qualche performance, interviste televisive… Il grande lavoro pre-registico effettuato da Claudio è stato poi la distribuzione delle voci all’interno di questa polifonia virtuale, in un’opera che è un romanzo-Paese, un romanzo-Cile, ma ancora di più un romanzo-città, un romanzo-Santiago.
CL – Quella del rapporto tra testo teatrale e romanzo è una specie di maledizione o di karma, che dir si voglia, che da sempre mi accompagna. La mia tesi di laurea era dedicata all’Orlando furioso che Luca Ronconi, su drammaturgia di Sanguineti, trasse dal poema di Ariosto, impiegando una tecnica diametralmente opposta a quella che avrebbe in seguito abbracciato delle edizioni teatrali: qui vigeva ancora il passaggio straniante dalla terza persona alla prima, con i paladini che dicevano «Entro in un bosco e nella stretta via» anziché «Entrò in un bosco e nella stretta via». In seguito, al rapporto tra testo teatrale e romanzo ho dedicato la tesi di dottorato, mentre il primo spettacolo cui ho collaborato, come assistente di Ronconi, è stato Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, il romanzo di Gadda adattato per il teatro… Credo che all’origine del concetto di “edizione teatrale” secondo Luca Ronconi, di questo suo modo, cioè, di prendere la pagina del romanzo per trasferirla direttamente in scena, si situi uno spettacolo in particolare: è Le tre sorelle di Čechov, che Ronconi ambientò nel futuro, trasformando le protagoniste in tre ottantenni consapevoli di aver trascorso la vita inutilmente, e insinuando, così, dentro alla narrazione, il tarlo della memoria. Marisa Fabbri, che fu una delle interpreti di quello spettacolo – ed è un’altra figura fondamentale per la mia formazione – quando parlava delle Tre sorelle, citava l’attacco dell’Aquilone di Pascoli («C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d’antico») sottolineando l’idea del presente, del passato e del futuro che precipitano in un unico tempo, il tempo della memoria. Da questo punto di vista, quello che trovo straziante ed entusiasmante del rapporto con la pagina romanzesca è proprio tale “collasso” di tempi, in cui si vive quello che è stato come se lo si sperimentasse per la prima volta, con tutta una serie di possibilità che la vita ha già, in qualche modo, soppresso. C’è anche la fascinazione per la “forma romanzo” per come la immagina Michail Bachtin, ovvero un coro polifonico, un caos multiforme che dentro la pagina romanzesca vive ed è antitetico, rispetto all’essenzialità della forma teatrale, ma che trovo sempre estremamente affascinante quando si deve raccontare la contemporaneità, di per sé multiforme: il romanzo, per il suo scappare e rifrangersi in mille voci e in mille sguardi, dà la possibilità di accedere alla complessità della realtà con più agio di quanto non lo consenta la forma teatrale convenzionale, per quanto l’espressione “convenzionale” possa valere.
Lino Guanciale, come ti sei accostato al personaggio della Fata?
LG – Non scherzavo, prima, dicendo che Ho paura torero è una “lemebeleide”. In questo romanzo, l’unico di un autore che, di norma, predilige la forma breve, precipitano come in un caleidoscopio tanti aspetti dello stesso Lemebel, oltre che tanti dei personaggi della galleria mostruosa, realistica, comica e tragica che ha creato nei suoi vari scritti sul Cile e il suo tempo. Perciò, il primo riferimento cui ho guardato è Lemebel stesso. Su di lui sono disponibili materiali estremamente interessanti, documentari girati per lo più nell’ultima stagione della sua vita, che ne ripercorrono tutta la vicenda personale. Lasciano intendere quanto il personaggio sia importante per il Cile e per tutto il Sudamerica, come abbia conquistato uno status di riconoscimento e intoccabilità, frutto della coerenza del suo percorso, oltre che della forza delle sue posizioni. Peraltro, in un colpo solo Lemebel è membro di più minoranze – omosessuale, oppositore del regime militare, di ascendenza mapuche… – le ha, insomma, quasi tutte per chiamarsi fuori dal coro ufficiale. Eppure, questo “capolavoro di marginalità”, grazie alla capacità dialettica e alla misura con cui ingaggia il dibattito con il suo tempo, è una figura estremamente elegante e autorevole, che si staglia sopra ogni altra. Nel suo essere forse non bello, non attraente – il personaggio del romanzo è dipinto come una specie di brutto anatroccolo, con un passato importante, ma con un presente di desolazione – è dotato di una grazia fuori dal comune, di un’eleganza eccezionale, di un tocco, nei confronti della realtà, straordinario. Accanto a questo – ma lo dico in appendice, perché non risulti aneddotico, ma soprattutto perché non credo nei modelli da seguire pedinandoli, ma nel fatto che ci si danno dei riferimenti ai quali “rubare” alcune cose – di sicuro esiste un artista che ha fatto un lavoro enorme per la versione cinematografica di un romanzo parente di Ho paura torero. È William Hurt de Il bacio della donna ragno, il film che Héctor Babenco trasse dal romanzo di Manuel Puig. A questo proposito, è molto divertente la risposta che Lemebel dette a un intervistatore che gli chiedeva se fosse consapevole dei molti punti di contatto tra il suo romanzo e quello di Puig: «Ah, sì ? Boh, io leggo molto poco…». Anche in questo, l’autore si conferma il modello ideale per la sua Fata “ignorante”.
Claudio Longhi, in che modo questo spettacolo si inserisce nel tuo percorso registico?
CL – Come era solito ripetere Ronconi, è vero che, forse, ognuno di noi lavora sempre intorno a un unico spettacolo, prendendo ogni volta via diverse per tornare su certi “luoghi del delitto”. Anche questa produzione, quindi, è la naturale conseguenza di altre tappe precedenti. In prima battuta, mi viene in mente La resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht, pensando sia alla dimensione politica di quello spettacolo e alla persistenza di tale connotazione in Ho paura torero, sia al rapporto con la musica di entrambe le esperienze. Rispetto alla riflessione su una certa storia che sta tra gli anni Settanta e Ottanta – il romanzo di Lemebel è ambientato nel 1986, anno cruciale nella storia della dittatura militare, perché segnato dall’attentato contro Pinochet – e all’esplorazione di un certo universo della contestazione, trovo echi de La classe operaia va in paradiso, altro appuntamento recente condiviso con Lino. Ma, sempre pensando al percorso svolto insieme, è difficile, per me, davanti a questo testo, non tornare con la memoria a Nella solitudine dei campi di cotone di Bernard-Marie Koltès, testo che abbiamo incontrato due volte, la prima, peraltro, anche con Mario Pirrello. C’è una sorta di lavoro di scavo, come cerchi concentrici che si allargano intorno a elementi costanti che ritornano, in cui, indiscutibilmente, la storia tende a farla molto da padrona. Come è vero che, nel nuovo spettacolo, persistono tracce di un altro appuntamento comune, ossia Le nozze di Figaro: per quanto siamo sideralmente distanti dall’universo di Beaumarchais, il tema del desiderio – anima della “folle giornata” in cui assistiamo al collasso del Secolo dei Lumi in un universo che poi dialogherà con Sade, la notte e l’oscurità – quella identica pulsione desiderante e fortissima è al centro anche del romanzo di Lemebel. Infine, considerando il ruolo che i sogni giocano in Ho paura torero, potremmo dire che, a suo modo, sia una “strana” Vita è sogno calderoniana, se non un insolito Calderón pasoliniano, in cui, costantemente, il tema è chi stia sognando chi.
Quali domande ed emozioni vi piacerebbe suscitare nel pubblico che verrà a vedere al Piccolo Ho paura torero e che tipo di reazione vi attendete dagli spettatori?
LG – Credo che nella scrittura di Lemebel, come nell’allestimento che si sta componendo, ci sia qualcosa che ha a che vedere con quello che a me sembra essere stato – e che ancora potrebbe essere – il rapporto dei milanesi con l’Istituzione Piccolo Teatro. Nella nostra operazione che, dal punto di vista della costruzione del copione, è di derivazione strutturalista, essendo essenzialmente fondata su un découpage (o smontaggio) del testo attraverso l’individuazione dei diversi punti di vista diegetici, vige tuttavia la totale assenza di timore nell’esprimere i sentimenti: la porta emotiva è aperta e invita tutti a entrare nel testo per quella via. L’esortazione proviene dalla scrittura di Lemebel e dalle musiche da lui stesso integrate al proprio discorso: il respiro del romanzo è, infatti, un fraseggio sonoro di parole e musiche, al quale Claudio sta dando volume e spazio, seguendo una cifra che, in un certo qual modo, ha, a ben vedere, direttamente qualcosa a che fare con quello che è stato il rapporto dei milanesi con il Piccolo fin dalle sue origini. Dai primi anni del loro sodalizio, in effetti, Strehler e Grassi promossero una proposta artistica che non aveva paura di muovere la corda emotiva, per arrivare al cuore dello spettatore, anche lì dove il discorso era il più politico possibile. Credo che un materiale drammaturgico come quello offerto da Ho paura torero consenta, a tutt’oggi – nell’assoluto rispetto della scrittura di Lemebel e senza alcuna forzatura o compiacimento, di premere analoghi tasti “emotivi”, riecheggiando quel tipo di rapporto “diretto” tra teatro e città. Ovviamente il modello di Strehler e Grassi è inarrivabile e inimitabile, ma proprio per questo merita oggi, forse, un “omaggio”. Mi piacerebbe quindi incontrare una reazione al nostro spettacolo che non fosse solo di fredda analisi, eminentemente critico-intellettuale. Vorrei che questo lavoro toccasse; che non lasciasse indifferenti; che costringesse a sentirsi coinvolti.
CL – Esiste sicuramente, nel romanzo di Lemebel, una dimensione di “popolarità”. Peraltro, questo è un sostantivo su cui dovremmo molto interrogarci e sul quale è stata fatta parecchia confusione, per lo meno nel corso dell’ultimo secolo. La popolarità dirompente di Ho paura torero risiede nel legame viscerale che Lemebel ha con il popolo di Santiago, con la gente cilena tutta, ed è una componente fortissima del romanzo, restituita anche dalla dimensione, giustappunto, “pop” delle canzoni che lo innervano. Marco Belpoliti, nell’introduzione al romanzo edito da Marcos y Marcos, parla di “estetica delle lacrime”. Io colgo questa possibilità nell’impudicizia con cui, in Ho paura torero, viene direttamente affrontata l’espressione delle emozioni, anche con un tratto di scrittura di sapore quasi infantile, capace di esprimere i sentimenti senza l’imbarazzo della maturità. Mi capita spesso di citare, a questo proposito, la celebre battuta di Umberto Eco quando dice che l’atteggiamento tipico dello scrittore postmoderno è paragonabile a quello di chi ami una donna, molto colta, alla quale non può dire «Ti amo disperatamente» perché lui sa che lei sa (e lei sa che lui sa) che questa frase l’ha già scritta Liala. Tuttavia, c’è una soluzione. Potrà dire: «Come direbbe Liala, ti amo disperatamente». Sentiamo costantemente il bisogno di frapporre dei filtri tra noi e il sentimento; all’opposto, Ho paura torero contiene uno slancio, un tuffo nell’emotività. È chiaro che tutto questo fa scattare mille campanelli di allarme, quando si pensa al magistero di Bertolt Brecht, e alla sua avversione per tutto ciò che potesse suscitare emozione nello spettatore, o quando si ripensa al teatro di Luca Ronconi e alla sua critica alla retorica delle “passioni”. E qui credo risulti folgorante la sintesi di un altro dei miei maestri, Edoardo Sanguineti, al quale si deve l’invenzione di una categoria, a mio giudizio geniale, quale quella di “emozione intellettuale”. Parlando dell’arte e del rapporto che essa ha con l’individuo, Sanguineti conia questa definizione per indicare qualcosa che faccia riflettere, ma al tempo stesso non privi del brivido dell’emozione, parte fondante dell’esperienza estetica.